Pescare da terra con esche vive alla ricerca della preda da ricordare, implica sicuramente una notevole dose di pazienza e la conoscenza di tecniche a volte particolari che, applicate correttamente, sapranno ripagarci con emozioni difficilmente descrivibili con le sole parole.
Ormai da alcuni anni, per i motivi più vari, che in questo periodo assistiamo ad un notevole incremento di specie predatorie a volte anche insolite, che si intrattengono nel sottocosta e si dimostrano ben disposte ad abboccare ad invitanti esce vive presentate in maniera naturale. La cattura da terra di questi pesci, che scorrazzano indisturbati a caccia di piccole prede, è però prerogativa di tecniche “ad hoc”, dove niente può essere lasciato al caso e dove i particolari fanno spesso la differenza.
Solitamente chi avrà il coraggio di osare, avrà la possibilità di confrontarsi principalmente con pesci come gli “spietati” serra, ormai veri signori dei bassifondi, o con le inedite e splendide lampughe, che sembrano gradire molto anche le acque costiere… tutte prede queste, in grado di regalarci momenti di indimenticabile soddisfazione, fermo restando che con un’esca viva le “gradevoli grosse sorprese” sono sempre in agguato. Una delle tecniche migliori per proporre guizzanti esche vive a “lunga durata”, senza che queste subiscano lo stress derivato dal lancio e dall’impatto con la superficie dell’acqua, è la tecnica della “Teleferica”. Sicuramente molto nota ma poco praticata, racchiude nella sua semplicità un’efficacia micidiale, ma siccome tra il dire e il fare c’è di mezzo -mai come in questo caso- il mare, affinché i nostri successi siano continuativi, va conosciuta a fondo in tutte le sue sfumature per plasmarla a seconda degli ambienti e delle potenziali prede presenti.
L’attrezzatura di base sarà composta da canne da surfcasting, telescopiche o ad innesti, con potenza massima intorno ai 150 grammi, abbinate a mulinelli fissi o rotanti a seconda i gusti, con un’ottima frizione e con una bobina in grado di contenere almeno 250 metri dello 0,40. I terminali, rigorosamente metallici, saranno realizzati da uno spezzone di una quarantina di centimetri di treccia o di monacavo d’acciaio di misura compresa tra le 15 e le 30 Lbs, con due ami in tandem, di cui uno fisso e uno scorrevole del n° 2/0 o 3/0. Il tutto così composto sarà collegato ad uno spezzone di lenza lungo circa due metri, recante un moschettone con chiusura di sicurezza e di affidabilità assicurata . Sulla lenza madre della canna andrà legato un altro moschettone di generose dimensioni con interposto un salvando e una sfera in plastica forata che farà da battuta.
Prerogativa assoluta per tale tecnica è l’esca viva; reperirla direttamente sul luogo di pesca spesso può essere più arduo del previsto. Non scordiamoci infatti, che se siamo in quel determinato luogo, vuol dire che siamo di fronte ad un “sentiero di caccia” e i piccoli pesci non sempre hanno tempo e possibilità di dedicarsi alle nostre esche. Comunque, escludendo quei casi disperati in cui bisogna fare scorta in ben altri lidi, con un po’ di tecnica e pazienza riusciremo a recuperare qualche scodinzolante boccone. Una canna all’inglese, munita di galleggiante o bombarda, un finale dello 0,08/0,10 lungo circa tre metri, e armato con un amo del 14 celato da bigattini o da un verme, potrà fare al caso nostro. Le nostre principali mire saranno le aguglie, praticamente infallibili, ma anche i cefali e le occhiate sono altrettanto valide. Una volta catturate andranno slamate con cautela e riposte in un capiente secchio, meglio se vasca, possibilmente con ossigenatore. Durante la pesca delle aguglie, anche se un po’ spartano come sistema, si deve cercare di ferrare la preda a vista, appena attacca l’esca, questo per evitare che ingoi l’amo, pregiudicandone notevolmente la vitalità. Ricordarsi sempre e comunque di effettuare una copiosa pasturazione che fungerà da duplice richiamo: sia per le nostre esche, sia per l’oggetto dei nostri desideri.
La tecnica di pesca vera e propria prevede di lanciare le canne con il solo piombo montato a perdere, e metterle in attesa. Come saremo in possesso di un bel pesce vivo, lo innescheremo sul dorso sottopelle, testa e coda, e attaccheremo il moschettone del terminale sulla lenza madre della canna. Sfilata quest’ultima dal suo alloggio, la manterremo alta, facendo scivolare l’esca verso il mare. Una volta in acqua, non sempre si dirigerà verso il largo, anzi spesso tenterà di ritornare indietro, ma non bisogna preoccuparsi: quei movimenti scomposti in superficie eccitano terribilmente i predatori che non esitano a sferrare i loro attacchi anche sotto i nostri piedi. Per agevolare la discesa comunque si potrebbe inserire vicino al moschettone del terminale un piombo da una ventina di grammi, ma il più delle volte non è necessario.
Quando i piccoli pesci tacciono è il preambolo che qualcosa sta per accadere. Nel silenzio totale si sente un fruscio, e una cascata di piccoli pesci cerca la salvezza tra cielo e acqua. Subito dopo il sussulto di una o di entrambe le canne, ci farà sobbalzare. Le “piegate”, in questa particolare tecnica, sono un po’ anomale, in quanto la canna non andrà mai giù decisa, ma dondolerà in modo lieve fin quando il moschettone non finirà la sua corsa sulla sfera di battuta. Non potendo ferrare subito, bisogna afferrare la canna al minimo movimento e iniziare a recuperare velocemente. Non appena la canna si fletterà in maniera decisa, segno dell’arrivo sul moschettone della lenza madre, ferreremo in modo progressivo ma deciso, e non recupereremo filo per qualche secondo. Manterremo così la canna alta e piegata e guardandola ne valuteremo il ritorno; questa azione e l’esperienza ci permetterà di capire con buona approssimazione la taglia della preda e quindi di adeguare a tal proposito il recupero.
Se trattasi di serra o di lampughe, lo show è assicurato. Tali pesci durante il recuperò alterneranno spettacolari evoluzioni aeree a veloci picchiate verso il fondo, situazioni comunque a rischio slamatura, ma con l’esperienza riusciremo a contrastare con la canna tali acrobazie in maniera efficace, riducendo al minimo gli imprevisti.
Limitare sempre l’uso della frizione all’indispensabile, cercando di non concedere lenza senza far “sudare il pesce”, perché più si allungano i tempi di recupero, più è probabile perdere la preda.
La conoscenza dell’attrezzatura è in questi contesti fondamentale. Se tutto sarà andato per il meglio, un capiente guadino o un raffio risulteranno indispensabili per concludere positivamente il combattimento.
I luoghi migliori dove praticare questa affascinante tecnica sono principalmente le scogliere alte, e i moli all’imboccatura dei porti, ma anche dagli arenili si possono fare piacevoli incontri. Ciò che risulta fondamentale però è lo spirito con il quale si dovranno cercare i pesci con la P maiuscola, tentare il colpaccio con la terza canna, mentre magari ci si sta dedicando ad altre tecniche, non è il giusto approccio ad una disciplina che richiede concentrazione e reattività. Ricordiamoci sempre che difficilmente i migliori risultati saranno frutto di improvvisazione.