In questa guida spieghiamo come scegliere le migliori esche per surfcasting.
Risulta essere inutile negare che tutti noi, chi più chi meno, crediamo in un’esca, e crediamo che soltanto quella sia capace di fare delle ottime catture. Si tratta evidentemente di un comune modo di pensare che, anche se in parte rifiutato, non manca di influenzare anche il più scettico dei pescatori. Io credo di appartenere a quest’ultima categoria e ciò nonostante ritengo che a volte un’esca sia più valida di un’altra.
Nelle coste laziali, ad esempio, l’arenicola è considerata un’esca micidiale e viene preferita a qualsiasi altra perché non manca occasione per far sfigurare le altre. Allo stesso modo è considerato il «bibi» in Liguria, e naturalmente potrei continuare ad elencarne altre, tutte migliori, s’intende, ma preferisco sottolineare quello che è il mio punto di vista in rapporto naturalmente alla mia specialità: il surfcasting.
Intanto non credo ai poteri delle comuni esche e tantomeno credo che un pesce affamato snobbi una pur invitante esca in favore di un’altra che è ancora da trovare. Quando il pesce mangia solo un’esca e non cura minimamente le altre, è probabile che soltanto quella sia stata resa appetibile dal pescatore. Per esempio, è inutile prendere posizioni del tipo «mangia solo il granchio» se l’alternativa a questa corposa esca è lo stesso amo ricoperto da un esile anellide. Esiste solo un caso, a mio avviso, che contempla cosi strani ed innaturali avvenimenti
e cioè, quando, per un motivo e per un altro, un pesce si trova in mezzo ad un paradiso alimentare composto però da un unico piatto. E chiaro che il perdurare di una simile situazione inibisce ogni altro contatto alimentare. Le nostre varianti non possono quindi, far altro che insospettire
gli ormai grassi pesci i quali, furbescamente, continueranno ad approfittare di quello che passa il ricco convento. Nel surf noi impieghiamo una grande varietà di esche; tutte sono sfruttate al meglio delle loro possibilità ma non tanto per i loro poteri quanto per la loro adattabilità in quel «frangente».
Questo significa che un’esca, nel surfcasting, per essere valida deve tener conto di diversi fattori: come viene impiegata, dove viene impiega- ta, a quale preda è rivolta, in che condizioni di mare deve lavorare. Soprattutto quest’ultimo fattore mi sembra molto importante. Sembra strano eppure tutto il surfcasting ruota intorno a questo fattore: lo stato di agitazione del mare. I calamenti sono studiati in base alla turbolenza, l’attrezzatura in generale è calibrata alle onde, la postazione sulla spiaggia viene scelta in rapporto alla morfologia delle onde e così ogni altro particolare non ultimo, appunto, l’esca.
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Il fattore principale è, dunque, lo stato di agitazione del mare. E siccome noi sappiamo che questo seleziona le prede ciò vuol dire che ad ogni grado di turbolenza corrisponde un tipo di pascolo diverso.
Per questo è più probabile catturare il sarago con il mare mosso e l’orata con mare poco mosso. Su queste basi e chiaro che l’esca sarà scelta solo su quelle che il tipo di preda, che pascola con quella data turbolenza, preferisce. E per stabilire quali siano queste esche occorre rifarsi alla propria esperienza oppure, per iniziare, all’opinione comune dei pescatori in generale, non necessariamente surfcaster.
Il secondo punto è quello del dove viene impiegata. Per valutare il rapporto esca-ambiente è necessario sapere di che cibo vivono le prede che si vogliono insidiare. Sapere insomma se sulla spiaggia c’è vita per sfamare i pesci che vi pascolano, di che tipo è e soprattutto se costituisce l’unica risorsa. Generalmente in una spiaggia esiste una grande varietà di «pasti» e in caso contrario la mareggiata arricchisce la povera tavola tanto da non far insospettire nessuno se tra i cannolicchi si trovano anche batuffoli di cotone maleodoranti. In ogni caso è buona norma utilizzare l’esca che si trova in loco con più facilità, l’esca di cui la spiaggia è più fornita, naturalmente in compatibilità con i gusti della preda che si vuole insidiare.
A questo punto sorge spontanea la domanda: perché una preda dovrebbe preferire la mia esca ad una naturale e senza insidie? Perche’ anche i pesci hanno i loro problemi. Non sempre vivono in vicinanza di risorse alimentari, non sempre le spiagge sono come i self service dove si ha tutto a disposizione.
Anzi, la maggior parte delle volte devono faticare per trovare di che sfamarsi. In queste circostanze anche le nostre esche, se ben presentate, costituiscono dei veri bocconcini. Bocconcini che vengono mascherati e confusi con altri elementi in sospensione dalle correnti e dalle onde. Oltretutto noi operiamo quasi esclusivamente al buio e quindi in condizioni a noi sicuramente favorevoli. Ma le cose cambiano sensibilmente quando la turbolenza non è elevata. Gli equilibri instabili vengono evidenziati e tutto ciò che non è veramente a posto è subito Scoperto dalla proverbiale sospettosità dell’orata о della spigola per esempio. In queste condizioni occorre presentare l’esca nel modo più naturale possibile, senza le limitazioni di un corto bracciolo. Del resto se esiste il long arm o il ciao-ciao, una ragione dovrà pur esserci.
Per questa moltitudine di aspetti e caratteristiche le esche sono un argomento difficile da catalogare ridurre a schemi.
Le esche possono dividersi in grandi gruppi
-Esche grasse o del caldo
-Esche del freddo
-Esche per spiagge profonde
-Esche da lontano o per spiagge basse
Come nota generale va detto che si privilegiano le polpe grasse con mare mosso ed acque temperate, le esche bianche (contenenti luciferina) con acque più fredde ed i vermi con mare calmo.
Ciascun gruppo ha una sua specificita’ temporale e un uso basato sul tipo di spiaggia.
Il cannolicchio,il bibi e l’americano,per esempio, hanno efficacia sia invernale che primaverile con condizioni di mare calmo o poco mosso, mentre occorrono le esche oleose (sardine e muggini) e granchi e murici con mare mosso che, con acque fredde, può richiedere tentativi con totani o meglio ancora calamari.
Le esche grasse o del caldo
In linea di massima quasi tutte le polpe dei pesci contengono sostanze oleose, ma le più forti sono la sardina, l’acciuga e il muggine.
L’uso più comune è quello dei “filetti”; assolutamente necessaria è la freschezza.
Il filetto viene solitamente ingoiato, quindi la scelta dell’amo è molto importante. Il migliore è un robusto Aberdeen dal 2 al 1/0 e la polpa deve essere rivolta all’esterno.
Con mare calmo o poco mosso il filetto funziona poco, quindi, se volete provare, fate solo tentativi limitati (di solito mirati a gronghi e razze).
La “calardina” è una variante del filetto; esso viene successivamente rivestito con un «foglio» di medesima dimensione ricavato dal manto di un calamaro; anch’esso assicurato con numerose spire di filo elastico. Così facendo pur mantenendone inalterato il potere attirante – proveniente dalla parte sottostante dell’innesco – si aumenta la protezione della tenera polpa della sarda da parte di “mangiatori a sbafo”.
Il filetto può essere parzialmente messo in salvo dai granchi, anche inserendo un piccolo pezzo di polistirolo (ricavabile da tagliando il coperchio di una scatola di americani), che metterà fuori portata dalle chele il filetto di sardina. Questo riduce in parte anche l’attività delle pulci, ma non dei «pesci» i quali trovano ancora più attirante la nuova mobilità.
La testa della sardina rappresenta il massimo concentrato d’olio dell’intero pesce, e si presta ad una straordinaria azione di richiamo ed inoltre piace da matti a tutti i predatori, a cominciare dalla spigola.
Il terminale adatto è lo zatterino, dotato cioè di un galleggiante esterno e di un bracciolo a circa 35 centimetri, con amo del nr. 2/0 a becco d’aquila. Quest’ultimo viene fatto passare all’interno della bocca e lo si fa fuoriuscire dalla fronte, con l’ardiglione bene in vista; è una parte che regge bene anche uno strattone violento. Ricordatevi che il “tempo di lavoro” della sardina è sempre berve, il massimo lo produce entro i primi 20 minuti, dopodiché è meglio recuperarlo e rinnovarlo, oppure provare con un’altra esca. Il «rosario» è il curioso nome di un sistema per innescare la mezza sarda, e, al contrario dei precedenti funziona benissimo con il mare poco mosso o appena risaccato. E qui preferibile una bella sarda, di anche cm. 15, da tagliare esattamente a metà, usando per l’innesco soltanto la parte dotata di testa. Il terminale si compone di un braccio di circa cm. 60 e del diametro dello 0.35, al cui capo sono legati sino a 6 ami storti del nr. 6.
L’innesco avviene a partire dalla testa, dove il primo amo deve essere appuntato solidamente dentro il palato; gli altri seguono avvitando in senso elicoidale la sezione rimanente. Non è necessario inserire del tutto gli ami nella polpa, è sufficiente appuntarli.
Considerato il peso dell’esca e soprattutto la necessità che questa si muova, il piombo non deve essere di peso elevato, massimo 100 grammi, anche perché il lancio deve appena valicare la risacca. L’efficacia dicevamo, è notevolissima, si cattura di tutto; a partire dai cefali per arrivare ai saraghi, alle spigole, alle razze di anche notevoli dimensioni. Sulla stessa falsariga, può essere innescata la sarda intera, a cui però occorre incidere i fianchi per la necessaria produzione di olii; non è tuttavia così efficace come la precedente, in quanto si rivela abbastanza selettiva, funziona egregiamente soltanto con eventuali predatori. In effetti è quello l’utilizzo principale della sarda intiera, motivo per cui è bene non fidarsi troppo di quei piccoli ami e di quel finale “relativamente sottile”. All’occorrenza meglio preparare un «Ciao-ciao» con un buon Shaughnessy del 4/0 o 5/0 da far fuoriuscire dal la bocca, ed immergere il galleggiante all’interno dello stomaco; taglio che verrà successivamente richiuso da abbondanti passate di filo elastico. Per terminare con la sardina si ricordano altri due inneschi:la VIPERA, finale a due ami terminali da usare anche senza piombo ed il DLA, finale lungo 3 metri da posizionare nella risacca con sarda decapitata e diliscata o con mezza sarda (la coda) .
Se la sardina eccelle per l’abbondanza di olio, il muggine non è da meno; la sua è però una carne diversa, rilascia le sostanze oleose più lentamente in virtù dei maggiori grassi contenuti. Il muggine però risulta essere un’esca esclusiva per grossi predatori .
Nell’utilizzo il muggine può talvolta rimpiazzare la sardina, nelle piccole trance riservate un po’ a tutto; ma certamente non la eguaglia. Il suo contributo è determinante nelle grosse trance, opera che svolge egregiamente anche quando la sardina è messa fuori causa da una temperatura troppo rigida dell’acqua.
L’innesco classico è il filetto, in cui proporzioni a parte, si procede esattamente come per la precedente. Ottenuto il filetto laterale, da un muggine di circa gr. 400, si avvolge al finale accartocciandolo e fissandolo con il filo. Il terminale è stavolta anche lui «specializzato» per le grandi bocche; consiste in un «ciao-ciao» dotato di amo Shaughnessy nr. 4/0 o 5/0, nel caso confezionato con treccia d’acciaio plastificata o nylon di grossa sezione: inutile andare a stuzzicare grosse prede se poi non siamo in grado di portarle a riva.
Il «trancione» è un’esca talmente efficace, che nei tentativi di pesca gli si affidano soltanto alcuni «tuffi» durante la battuta; della durata mai superiore a 20 minuti, poiché se è in zona, il predatore risponde immediatamente. Inutile continuare a lasciare intiere ore questa esca in mare, si perderebbero altre opportunità che invece possono essere sfruttate con quella stessa canna.
Le esche del freddo
Il calamaro e la seppia sono le esche più pulite in assoluto, facili da maneggiare e sezionare, così anche da innescare. Ma non è certamente questo il motivo del loro successo, ma il richiamo visivo (luminescenza) che in certi periodi dell’anno risulta determinante; e c’è anche la resistenza agli assaggi che si trasforma in una più lunga autonomia, gradita, allorché i rigori invernali rattrappiscono gli arti dei pescatori sulla spiaggia. Funziona bene alle prese con tutte le specie tipicamente invernali e per insidiare contemporaneamente sia i predatori che i grufolatori. Insomma un’esca duttile ed efficace, che fallisce solo con mare troppo calmo, situazione in cui innescare un pezzo di calamaro o di gomma da masticare non fa alcuna differenza.
Le dimensioni adatte al «maneggio» delle esche, variano dai 400 ai 600 grammi; cioè un calamaro o una seppia di tal peso, si prestano meglio alla realizzazione dei vari inneschi per via dello spessore della polpa, corrispondente a circa 5-7 millimetri. Questo permette l’utilizzo di un amo consistente (1 o 1/0) e l’esecuzione di un innesco lineare, e non a spire o avvitamenti, inevitabili quando lo spessore del manto è inferiore a quello indicato. Per lo più, sono proprio gli avvitamenti che, alle prese con la corrente sostenuta, causano torsioni e grovigli: l’esca ruota su se stessa.
Una delle prime cose da innescare sono i bargigli, i due lunghi grinfioni tattili con cui i cefalopodi trattengono la preda prima di avvicinarla ai tentacoli. Si tratta di due tenerissime ed ottime esche da cui si ottengono 4 inneschi a cui nessuna preda può dire di no, specie se si tratta di roba fresca. Per l’innesco ci si comporta come alle prese con un lungo e robusto verme; l’amo adatto è un Aberdeen no 1 o 2.
Poi il mantello viene inciso longitudinalmente per ottenere un ventaglio da cui ricaviamo delle strisce di circa cm. 1 di larghezza per tutta la lunghezza possibile.
La striscia è l’innesco più classico e pagante, in quanto la porzione è buona e la masticazione facile, con l’amo in posizione felice per la presa. Si può utilizzare la tecnica dell’innesco convesso (seguendo cioè la forma dell’amo) oppure lineare, quest’ultima più consona alle mareggiate sostenute, allorché la corrente mette a dura prova la tenuta dei braccioli; l’innesco lineare non si avvita su se stesso.
Gli ami sono generalmente degli Aberdeen nei modelli più robusti, nelle misure che vanno dal 2 al 1/0. Quest’ultimo numero è poi egregio per l’innesco a «coda di rondine». Si tratta di un disegno di straordinaria efficacia alle prese con i predatori, tipo spigole, per la mobilità che riassume le forme di un pesce esca, con l’aggiunta della sua luminescenza. L’amo deve uscire con tutta la punta al centro della coda di rondine. L’accortezza è quella di evitare il suo impiego allorché sia probabile la presenza degli sparidi, i quali disdegnano completamente questo innesco, limitandosi a piccoli morsi di assaggio solo sulle punte della «coda».
La testa rimasta è un innesco molto attraente e riservato ai predatori. Sezionata longitudinalmente, rimosso il becco, sul piano di lavoro appare una specie di «gonnellino tahitiano», dove gli svolazzi sono rappresentati dagli stessi tentacoli. Non rimane che disporre il terminale adatto, cioè un ciao-ciao dotato di amo 4/0 e 5/0 diritto – tipo Shaughnessy e per bracciolo una treccia plastificata oppure un monofilo da 0.60, a seconda delle prospettive di pesca.
Il gonnellino viene letteralmente avvolto al ciao-ciao, dove viene assicurato con numerose mandate di filo elastico; nel fare questa operazione, già si può apprezzare la futura attrattiva, in quanto le spire di elastico gonfiano irregolarmente la testa. I tentacoli è bene svolazzino liberi, senza fissaggio rigido, occultando con il loro profilo la presenza dell’amo. Questo «ciuffo» simula ad arte un piccolo cefalopode, le cui movenze sono assicurate dal galleggiante interno; impossibile resistergli.
Nel panorama delle esche del «freddo» un capitolo a parte è meritato dalle esche vive. Si tratta di soluzioni mirate, efficacissime, pur se limitatamente alla sola categoria dei predatori.
Tra le molte alternative spiccano l’anguillina ed il cefalotto, due esche di facile reperibilità, che richiedono un semplice contenitore dotato di ossigenatore. La prima soprattutto, si rivela assai robusta ai maltrattamenti ed all’inevitabile debito di ossigeno, per contro non risulta così eclettica come il secondo, funzionando egregiamente alla prese con le spigole adulte ma non con altri occasionali predatori. Il cefalotto risulta viceversa delicato, sia nel mantenimento che nel lancio, è però strepitoso nell’adescamento.
Terza alternativa è quella di innescare altri pescetti vivi reperiti sul luogo di pesca. Un un pesce esca adeguato varia dai 100 ai 200 grammi. E’ questo il caso di un saragotto oppure di una mormora, che innescati immediatamente dopo la cattura forniscono un rimedio alla mancanza di esche vive. Di norma poi si tenga presente che se la zona di pesca non ci fornisce pesci minori da usare come esca, significa anche che non è adatto al tentativo pesante.
In caso di terminali monoamo sia il cefalotto che l’anguillina si innescano in modo identico: sul dorso, sotto pelle; la differenza consiste nella diversa posizione dell’amo: nei tre quarti posteriori l’anguillina, appena dietro la testa il cefalotto.
L’amo può essere scelto in base alla grandezza del pesce esca, e cioè un robusto Aberdeen (1/0 – 2/0) oppure le apposite spille per il vivo. Nulla a che vedere con il surf oceanico, dove i pesci esca sono anche di . 800-1000 gr. ed il terminale è costruito con 80 cm. di monocavo da 200 libbre e amo da 10/0. L’esca viva si rivela eccellente in ogni condizione di mare; addirittura è bene che la turbolenza non sia elevata, sia perché viene facilitata la ricerca da parte del predatore, sia perché un moto ondoso con frangenza esterna, in qualche modo limita la presenza sotto costa dei grossi esemplari. Una semplice risacca su spiaggia profonda, è quanto di meglio ma anche con il mare calmo le possibilità ci sono.
Le Esche per spiagge profonde
Trovarsi a pescare su grandi spiagge profonde, con litorale orlato da una sola, se pur grande, onda di risacca e dove il frangente esterno non esiste se non sporadicamente o mai, propone condizioni che si avvicinano o riproducono quelle della pesca a fondo con mare calmo.
Allora occorre indirizzarci su esche naturali, che conservino in qualche modo la forma originaria; adatte quindi anche ad un richiamo prettamente visivo oltre ché per olfatto.
Il murice (Murex Brandaris) è un mollusco gasteropode frequente nei banchi del mercato o delle pescherie; in quasi tutte le regioni italiane è apprezzato per il suo valore gastronomico.
E’ un’esca specifica, quasi essenzialmente riservata agli sparidi, specie le orate, che spesso cimentano la loro formidabile dentatura sul durissimo guscio, attratte dal sapore del mollusco contenuto all’interno. E’ un’esca da mare calmo o comunque da usare dopo l’ultimo frangente, andandoci con uno short rovesciato del 26-30 e un amo obbligatorio beack 2 o un crab con due murici. Lo si innesca sgusciato, sia per avere un maggiore richiamo olfattivo, sia per estendere anche ai saraghi la possibilità di cattura.
Rotto il guscio, con una pietra o un martello, il muscolo viene privato dell’unghia peduncolare, ed innescato con la parte morbida rivolta sulla punta dell’amo. Quest’ultimo è bene sia del tipo robusto, gambo corto e collo ampio, poiché la preda prima di ingoiare masticherà l’esca, con evidenti possibilità di danneggiamento a scapito di un amo con diverse caratteristiche. Il murice può essere utilizzato con successo anche surgelato, dove anzi aumenta il richiamo olfattivo e diminuisce notevolmente la durezza delle carni, offrendo talvolta inaspettate doti alle prese con prede di diverso tipo… misteri del freezer!
Simili per risultato e comportamento, le cicale e le cannocchie, due esche forse meno «tremende» alle prese con gli sparidi ma ancor più resistenti agli assalti di pulci e granchi e con qualche chanches in più nei confronti dei predatori. L’innesco avviene dalla parte posteriore, appena sotto la coda dove l’amo deve penetrare più a lungo possibile prima di fuoriuscire nella zona addominale. Ecco il motivo per cui sono da preferire modelli robusti, magari in acciaio, ma con un gambo nettamente più lungo.
Il granchio merita un cenno a parte; è la tipica esca che ci fa stare tranquilli: resiste all’assalto delle pulci, cattura sparidi e predatori, seleziona per grandezza le prede e ci consente il meritato riposo nelle notti più dure. Per contro, gli si può addebitare soltanto qualche «fallo» di troppo nell’abboccata, dove frequentemente il guscio, schiacciato dal morso della preda, si separa mettendo fuori causa l’amo. Ma la cosa può essere ridotta a valori accettabili utilizzando granchi di non eccessive proporzioni, e soprattutto ami specifici, come i Crab Hooks (ami da granchio). La punta deve penetrare nella giuntura della prima gamba posteriore e fuoriuscire nello stesso punto sul lato opposto. In alternativa il passaggio dell’amo può riguardare un unico fianco; abbracciando la prima e l’ultima zampa sullo stesso lato.
Le chele è bene siano rimosse prima dell’innesco, ed i granchietti selezionati in base alla resistenza del carapace, che dovrà trasmettere una buona elasticità sottoposto a pressione tra i polpastrelli. Talvolta tuttavia, in mancanza del «top» ci si dovrà accontentare della disponibilità immediata: in questo caso tutto «fa brodo», rimediando all’eccessiva grossezza o durezza, con un taglio longitudinale (a metà) ed un’innecsco laterale anziché posteriore. Gli umori interni verranno dispersi più rapidamente, aumentando sia il richiamo sia proporzionalmente anche i controlli dell’esca.
Allorché su una spiaggia profonda, sia dichiaratamente nota la presenza di saraghi o altri sparidi – ma questo anche su spiagge basse e medie – il più efficace sistema di raccolta è certamente quello offerto dalle cozze, muscoli o mitili. Partendo dal presupposto che il più grande flagello dell’acquacultura dedita all’allevamento di questi bivalve, è appunto quello prodotto dalle orate che le divorano, è facile pensare a quanto quest’esca sia efficace.Il loro impiego, fortemente penalizzato dalla delicatezza dell’innesco, necessita dell’utilizzo del filo elastico o di quello idrosolubile. Privato delle valve, il mollusco (uno o più) viene più volte passato nell’amo sino ad ottenere un innesco bilanciato e compatto. L’amo adeguato possiede caratteristiche di leggerezza, gambo di media lunghezza e punta affilatissima: quindi Aberdeen o i nuovi modelli di beack a filo sottile.
La delicatezza dell’esca, raggiunto il settore di lavoro, è legata agli assaggi di pulci, granchi o altri pescetti; è bene controllare frequentemente sino a che non si sia acquisito il tempo massimo utile di permanenza in acqua. Uno sparide nelle vicinanze, praticamente impazzisce sin già dal tocco dell’esca sulla superficie, dove viene di colpo liberata una consistente chiazza oleosa che espande immediatamente il suo messaggio. Meglio quindi stare appresso agli inneschi, rinfrescarli comunque, anche in caso di integrità apparente: la cozza perde quasi subito tutto il suo umore.
La cozza, a seconda del pesce cercato, si innesca su finali lunghi del 22-25 con un Aberdeen robusto del numero 6.
Limitatamente ai saraghi può essere usata anche la patella, innescandone due o tre su un beack del numero 6 e filo del 24.
Le telline e le vongole funzionano benissimo con le mormore, innescandole su un finale max del 22 ed un Aberdeen del numero 6.
Le esche per spiagge basse
Se ci si trova su una spiaggia bassa, bisogna lavorare sulle sue differenti distanze operative: lancio medio o lungo. Il lancio corto, salvo in alcuni luoghi particolari e ben conosciuti, non paga mai. Con il lancio medio, se il mare è ragionevolmente mosso – date per scontate le caratteristiche di forte risacca – le esche richieste sono quelle del surf casting. Se il mare si presenta molto mosso, la fascia media si presenta sterile come quella sotto riva. Nel lancio lungo vediamo invece cosa può aspettarci.
Essendo preventivabile una superiore profondità, la corrente sarà più moderata, inoltre per lo stesso effetto l’onda non romperà e quindi l’acqua si manterrà su condizioni di visibilità accettabili.Il fondo non viene rivoltato, ed quindi mancano le prerogative del surf casting, siamo invece di fronte ad autentiche condizioni di «fondo», o di surf fishing.
Siamo quindi pronti ad innescare le esche tipiche di queste due specialità, con le quali ci troveremo senz’altro più a nostro agio nelle nuove condizioni di pesca.
Nel periodo autunnale il bibi ed il verme americano offrono ampie garanzie di successo, immediatamente seguiti a ruota dal cannolicchio ed il muriddu. Successivamente, sotto il «treno» delle perturbazioni e l’acqua in sensibile abbassamento di temperatura, meglio, molto meglio, il cannolicchio ed in seconda istanza il bibi; i vermi cominciano infatti a comportarsi in modo strano, durano moltissimo sull’amo e le prede paiono svogliate in loro presenza.
Tutte queste esche possono essere trattate allo stesso modo, cioè con finali non superiori allo 0.30, possibilmente mobili, con calamenti lunghi e per ami gli Aberdeen di dimensioni variabili dal 6 al 2.
Con il ritorno della buona stagione, in primavera ed estate, la padrona delle spiagge basse risulta indiscutibilmente la mormora; il trio obbligatorio di esche è il classico arenicola+americano+bibi, integrato con coreani e muriddu, e che dovranno essere utilizzati proporzionalmente in base ai gusti dichiarati delle mormore locali. Travi e terminali dovranno essere i più leggeri possibile, compatibilmente con le nostre possibilità di farli stare in pesca senza grovigli e per distanze di lancio che vorremo raggiungere.Come indicazione generale utilizzeremo terminali di diametro massimo del 22 (il 25 solo con il bibi) e prevalentemente ami Aberdeen dalla misura 7 in giù o piccoli beack a filo sottile delle stesse misure.
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