Dedicare qualche ora della notte alla pesca in banchina, presenta diversi vantaggi, non ultimo quello d’imbattersi in qualche pregevole cattura.
La notte ha il suo fascino, anche se parliamo d’ami e lenze. Tutto assume un carattere diverso, sommesso, misterioso. Lo stesso specchio d’acqua calma e trasparente che di giorno ci mostra senza pudore ogni sassolino del suo fondo, a volte banale e desolato, di notte diventa il nero mantello d’un mago, da cui attendiamo, all’improvviso un fortunato responso. Un ché di furtivo accompagna le nostre mosse sin dall’approssimarsi alla postazione scelta. C’insinuiamo nel buio e nel silenzio come predatori nottambuli e silenziosi, invisibili e micidiali, armando la nostra attrezzatura con gesti quasi ciechi; fino al piccolo crepito che, tra le nostre dita, dà vita al bagliore verde che da quel momento non smetteremo più di seguire con lo sguardo: lo “star light”. Pensateci, quel gesto che ha un ché di voluttuoso e di magico, segna l’inizio del tempo che dedichiamo, sottraendolo alla naturale inattività delle ore notturne, al desiderio di una cattura. La postazione. A notte fonda è difficile incontrare qualcuno per una strada qualunque della città. Se invece ci fermiamo in prossimità d’una piazza, dove magari c’è un bar aperto, od un ristorante, sarà di certo più facile fare qualche incontro. Analogamente, l’interno di un porto sarà sicuramente più frequentato d’un qualunque altro anonimo tratto di scogliera. Per una serie di ragioni più o meno note, è lì che prevalentemente stazionano i pesci, ed è lì che potremo provare a prenderli, armati comunque di buona pazienza, tra i pescherecci ormeggiati. Tra i proprietari dei suddetti è invalso l’uso di tollerare la nostra intrusione a bordo, che si rende necessaria quando non vi è un tratto di banchina libera da cui pescare. In caso contrario, se vi è spazio sufficiente, è più comodo restare a terra, evitando di doversi districare in spazi angusti ingombri di cime, reti, verricelli ed imbarazzi d’ogni genere, particolarmente inclini, nel buio, a ledere stinchi, ossa craniche e canne in carbonio. In entrambi i casi eviteremo di lasciar tracce del nostro passaggio, costituite ad esempio da plastiche varie, bigattini raminghi e qualsivoglia altra lordura organica o sintetica. Questo oltre che per il doveroso ossequio alla creanza ed all’ecologia, anche per evitare di fornire preziose informazioni a chi va “annusando” in giro per capire se una data postazione viene usata e magari rende bene.
In caso contrario, alla prossima battuta potremmo trovare il “nostro” posto già occupato. Quella vernice che rende invisibili, noi vorremmo possederla talvolta per attintarcene durante le proficue pescate notturne e diurne, onde evitare di esser visti prima e preceduti poi, in quei pochi metri quadri di banchina che la legge ci vieta di transennare ed eleggere nostra personale riserva di pesca. L’attrezzatura. Una guizzante “bolognese” di cinque metri, calzata con un bel mulinello morbido di frizione è quel che ci vuole, se il fondale non eccede detta lunghezza di canna. Personalmente non ho simpatia per i galleggianti scorrevoli, perciò, fino a sette metri d’acqua, preferisco evitarne l’uso aumentando la lunghezza della canna per usare comunque un galleggiante fisso. Generalmente, però, nella parte più interna di un porto, raramente troviamo fondali alti, per cui la cinque metri è già sufficiente. Supponiamo di avere sotto di noi un fondale di quattro metri. Tolto un metro di finale libero da zavorra, dovremo distribuire i pallini sui rimanenti tre metri. Il principio al quale attenersi nel piombare la lenza deve essere proprio questo, quello di realizzare una piombatura il più possibile “scalata”, morbida, utilizzando ad esempio gruppetti di pallini in numero crescente man mano che dall’attacco del finale risaliamo verso il galleggiante. Quest’ultimo si vuole che sia affusolato e leggerissimo, segnatamente per la spigola, anche sotto il grammo. Tuttavia, basterà una brezza contraria, anche solo un alito, per non farci andare correttamente in pesca, rimandandoci subito la lenza tra gli zebedei, ad onta delle scudisciate date contro vento nel tentativo di lanciare almeno un metro oltre la punta della canna. A questo punto, se decidessimo di cambiare il galleggiante, dovremmo rifare l’intera lenza ed al buio, non è consigliabile. Rimontare una ventina di micro pallini in condizioni precarie di luce e di nervi significa, infatti, farsi venire un ictus. Allora opteremo sin dall’inizio per un galleggiante più comodo, ad esempio una “pera rovescia” da due grammi che correttamente tarata, farà comunque la sua bella figura, vi assicuro. In bobina il solito 0,14 e per finale useremo monofilo dallo 0,10 allo 0,12; ametto piccolo, mi raccomando, tipo un 18, che prenderà sottobraccio un bel bigattino bisbetico per condurlo all’altare situato nella bocca della spigola in oggetto (del desiderio). Azione di pesca. Pescare a sfiorare il fondo, dopo averlo misurato; la spigola in genere aspetta che i bigattini vi arrivino, prima di attaccarli.
Pasturare con pochi bigatti ma spesso. Osservare la caduta in acqua della lenza ad ogni lancio, per controllare che il finale non si sia ingarbugliato. A tal fine operare una trattenuta sulla lenza un istante prima che tocchi l’acqua. Aspettare pazienti che prima o poi almeno una “sciasciona” abbocca, e spesso si hanno repliche ravvicinate. Le ore migliori. Le ore migliori sono quelle durante le quali vediamo il galleggiante andar giù e la frizione intonare il suo canto. Amo, su questo aspetto della questione, essere una voce fuori dal coro. Ritengo alquanto “fantasiose” le teorie che vogliono i pesci inclini a mangiare al culmine di marea, quando la luna spunta dal monte o quando scompare all’orizzonte. L’unico momento propizio che ho statisticamente identificato è l’alba, ma anche questa è solo un’evenienza probabile, non una legge. D’altronde, se anche fosse possibile individuare con certezza tutti i momenti propizi, la scelta delle ore da dedicare alla pesca continuerebbe ad essere dettata da quelle contingenze proprie di una normale vita lavorativa, familiare e sociale. In altre parole, si va a pesca appena tutti gli altri impegni lo consentono; se poi quello è il momento che ai pesci gli garba di mangiare, lo scopriremo solo vivendo, come dice una vecchia canzone. In conclusione. Cominciare a prendere qualche spigola non è difficile, ed è fonte di notevole gratificazione.
Nell’ambito portuale, la vera difficoltà può derivare dalla presenza di cime d’ormeggio, imbarcazioni, gavitelli e quant’altro può dare incaglio alla lenza durante il combattimento, con conseguente perdita del pesce. Un’ispezione diurna è utile a farsi un’idea di dove siano gli ostacoli che di notte potrebbero non essere molto visibili. La spigoletta sotto i ventitré centimetri va rilasciata, anche se intorno a questa misura abbocca con più frequenza.