La pesca dalla barca destinata alla cattura dei cefalopodi è una tecnica divertente e remunerativa in termini gastronomici, a patto di imbroccare varie congiunture favorevoli. Vediamo quali.
Quello che più conta in questo tipo di pesca è trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Sembrerà un’affermazione banale e tanto generica da poter essere applicata, come concetto, ad ogni evento della nostra vita che generi un qualche vantaggio. Tuttavia, nel caso in esame, quello della ricerca dei tentacolari molluschi, è quanto ci viene di dire in apertura della succinta trattazione. È come andare alla ricerca di un tesoro nascosto, disponendo di generiche informazioni.
Penetrare all’interno di un grande castello aprendo le porte giuste, con le chiavi adatte, andando alla ricerca di indizi determinanti, fino a trovare la stanza del tesoro. In questo caso il tesoro in questione è rappresentato dai cefalopodi, ottimi da mangiare in tanti modi diversi.
La stagione adatta è arrivata, almeno nel Tirreno centro meridionale, poiché hanno fatto la loro comparsa calamari e seppie, benché ancora siano di taglia alquanto minuta.
Con sorprese a base di polpi “veraci” sempre da tener di conto.
La barca innanzitutto: anche se in alcune zone è possibile catturare i sullodati cefalopodi da terra, quando essi sono presenti, ad esempio, all’interno di porti; rimane il fatto che questo tipo di pesca si effettua prevalentemente su fondali cospicui, segnatamente in apertura di stagione. Occorre quindi disporre di un’imbarcazione che ci conduca più o meno al largo. La mia prima uscita dedicata a questi “tesorucci” mi ha condotto, nottetempo, a scandagliare dapprima un fondale di venti metri circa, ma non è bastato. Mi sono dovuto spostare, alle prime luci dell’alba, su una profondità di quaranta metri per effettuare le prime catture. Occorre quindi disporre di un imbarcazione che, per quanto piccola, consenta di arrivare a tanto. Ciò non vuol dire che non sia possibile effettuare catture in acque meno profonde, ma in ogni caso occorre un mezzo per andare per mare.
Occorrente (e costi) per la pesca
Cento metri di nylon dello 0,60 / 0,80 (5 €) avvolti su un sugherone, meglio se sintetico (1,50 €): poi bisogna comprare gli artificiali; quali? La scelta è vastissima, poiché c’è grande varietà di forme e colori, come è facile constatare entrando in un buon negozio di articoli da pesca. Caratteristica comune alla maggior parte di essi è quella di imitare nella forma un gambero, talvolta solo vagamente; tutti gli artificiali per cefalopodi presentano in coda una doppia coroncina di ami senza ardiglione. In effetti quello più usato (6 €) non ha quasi nessuna somiglianza morfologica col detto crostaceo, tanto che c’è da credere che la sua principale dote sia quella di essere fosforescente, ossia di restituire energia luminosa in un ambiente non illuminato. Questa caratteristica si rivela, evidentemente, vincente nella pesca notturna, od in quella diurna oltre i quaranta metri, dove luce ne arriva poca anche di giorno. Per il resto, si rileva la presenza di un rivestimento setoso e colorato in vario modo, oltre che di due baffetti che simulano pinne pettorali, peraltro assenti nei gamberi. Anche questa caratteristica epidermica, quando non è presente, non sembra fare grossa differenza: su quattro calamari catturati, due si sono agganciati sull’artificiale liscio (ancorché luminescente). Anche la luminescenza, tra l’altro, tende a scomparire se non viene ravvivata con periodiche esposizioni del piccolo attrezzo ad una fonte luminosa. Occorre poi un piombo da cento grammi e qualche girella.
La montatura
Il criterio da seguire è quello di limitare la perdita di artificiali in caso di arrocco sul fondo. Di conseguenza conviene che la lenza madre continui fino al piombo, avendo cura di connettere quest’ultimo con un piccolo spezzone di nylon più sottile, poniamo dello 0,25. subito sopra il piombo, un bracciolo di un metro, sempre del ’25, con l’artificiale che lavora “a terra”, e due metri più su altri due “gamberoni” con un bracciolo cortissimo, distanziati tra loro di un metro. Questa montatura consente di perdere solo il piombo o solo l’artificiale più basso, salvando il resto. Quanto alla visibilità del nylon, non credo che se ne debba fare un problema così come accade per la cattura della maggior parte dei pesci: i cefalopodi si avventano su questi piccoli “ufo” che gli facciamo ballonzolare davanti sa Dio per quale motivo, e non vedo perché dovrebbero inorridirsi per un po’ di lenza più grossa. Questa è la mia opinione, e sarei curioso di veder dimostrato il contrario.
Il momento propizio
Come accennato, nel basso Tirreno, la stagione per pescare i cefalopodi con la lenza inizia con l’autunno, quando accostano fin in pochi metri d’acqua, durante le ore notturne. La loro presenza si protrae per tutto l’inverno, fino alle soglie della primavera. Le ore buone sono quelle buie per i calamari, particolarmente attivi col sole sull’orizzonte. Le seppie si catturano anche di giorno, fin nella mattinata, con l’acme nel tardo pomeriggio. Va detto poi che la cosa più importante è riuscire a trovare il punto giusto, la zona dove le nostre prede stazionano. In genere conviene dirigere la prua verso qualche assembramento di barche che si scorge in mare, e controllare cosa sta accadendo senza essere troppo invadenti. Solitamente più sono raggruppate le barche, più è probabile che si stia prendendo qualcosa, ma non è sempre così. In ogni caso è bene rimontare lo scarroccio per non perdere il punto buono. Può essere utile portarsi dietro un pedagno, da mollare in acqua per segnalare la zona della prima abboccata al fine di riguadagnarla con precisione. In assenza di vento o corrente, conviene remare un po’, per perlustrare la zona.
L’azione di pesca
Bisogna mollare lenza fino a toccare il fondo, richiamandola poi verso l’alto con un ritmico ed ampio movimento del braccio. Si avrà modo di valutare, così facendo, il suo peso a vuoto che aumenta con l’aumentare della profondità di pesca. L’ingaggio col cefalopode è segnalato dal repentino aumento proprio della resistenza al sollevamento del monofilo calato in acqua: a questo punto s’inizia un costante recupero del filo, in un crescendo di contentezza che culmina col salpaggio della preda. Detto salpaggio può avvenire “volando” il calamaro a bordo o gradinandolo, a seconda di quanto si vuole rischiare. Talvolta si può giudicare che il calamaro (o seppia) sia agganciato male, magari solo per un tentacolo, ed allora il guadino è necessario. Dopo qualche ora buia trascorsa in solitudine lontano da riva, con apprensione causata da fulmini sul limitar del nero orizzonte, su una barchetta tutt’altro che tranquillizzante per dimensioni e doti marinare, si desidera molto avvertire finalmente un po’ di vivo peso in fondo a quei quaranta metri di lenza che ci si ostina a strattonare.
Quando alle prime luci dell’alba il desiderio s’avvera, e si sente che qualcosa s’è aggrappato al “gamberone”, come noi fin lì lo siamo stati alla speranza, non è infrequente il caso che l’accumulo di tensione si liberi nelle più colorite espressioni rivolte a tutta l’ascendenza trapassata del Loligo vulgaris che s’è degnato d’incrociare il nostro dispositivo di pesca; e via, ad imprecare e a dar di gomiti, finalmente, per metterlo nel secchio il primo calamaro di stagione.