I pescatori dulciacquicoli, nella loro calata verso il mare al seguito della corrente, si sono portati dietro le loro tecniche di pesca, le loro attrezzature e le loro esche che, in pratica, si possono raggruppare solamente in una: i “bigattini”.
Con queste larvette di mosca carnaria si insidia un po’ di tutto: dai saraghi alle orate e dai ghiozzi alle spigole. Per la pesca a queste ultime che, specialmente nei mesi freddi, popolano le foci e le acque che bagnano le banchine portuali, conviene usare una leggara bolognese in fibra di carbonio lunga dai sei ai sette metri, alla quale è abbinato un mulinello leggero la cui bobina è stata caricata con un monofilo super dello 0,15-0,18. In fondo al filo di bobina viene fermato un galleggiante affusolato da 1,5 – 2,0 grammi la cui antennina superiore, colorata in rosso o giallo fluorescente per la pesca diurna, può essere sostituita con uno starlite piccolo per quella notturna.
Sotto il sughero, un semplice cappio oppure una girellina doppia danno attacco al finale, composto da tre o quattro metri in nylon super dello 0,10-0,12 e armato con un amo cromato a gambo corto del numero 19-17.
Poiché in genere le spigole si tengono vicino al fondo, conviene che la lenza sia morbida e che scivoli sulle asperità di questo, senza restarvi afferrata.
La piombatura perciò, anziché essere raggruppata in una sola torpille fermata da un pallino di piombo, dovrà essere scaglionata lungo quasi tutto il finale e sarà composta da una serie di mignonette di peso adatto a bilanciare il sughero. Tanto per fare un esempio, se si monta un galleggiante da 1,50 grammi e si usano mignonette del numero sei (grammi 0,122 ciascuna), per equilibrare il galleggiante, ne occorreranno dodici per un totale di 1,464 grammi. Su un fondo di tre metri, i pallini vengono disposti nella maniera seguente: due subito sotto il sughero, due a sessanta centimetri più in basso, tre ad altri sessanta centimetri, poi due alla stessa distanza e infine uno ancora a sessanta centimetri, al quale segue uno svolazzo di filo libero fino all’amo di 100-130 centimetri.
La piombatura appena illustrata, leggera alla estremità e più pesante in mezzo, serve a far distendere meglio il finale davanti al galleggiante senza creare imbrogli, quando si usa una canna bolognese tanto lunga e dopo aver dato alla lenza un fondo di quattro metri. Prima di iniziare a pescare, conviene sondare il fondo antistante fermando la sonda sulla mignonette più bassa la quale, una volta tolta la sonda, sfiorerà il fondale lasciando il finale libero di svolazzare in corrente e di presentare l’esca davanti alla lenza in modo da attirare senza insospettire le spigole, richiamate in zona dal brumeggio.
Quest’ultimo, inutile dirlo, è formato da una decina di bigattini calati In acqua vicino alla sponda, più abbondantemente all’inizio e a spizzichi durante tutta l’azione. Come esca si usano uno o due biagattini (meglio uno solo), appena infilato sottopelle dalla parte della coda. Una volta innescato, si lancia sopracorrente non lontano dagli scogli (o dai moli se si pesca in porto) e si inizia la passata, intervallata da frequenti trattenute che faranno staccare l’esca dal fondo rendendola ben visibile e appetibile alla prima spigola di passaggio. Quando il pesca abbocca, si vede il galleggiante immergersi lentamente e restare sommerso. A questo punto, una ferrata e un sapiente recupero aiutato dalla frizione del mulinello, ci permetteranno di portare il pesce fin dentro il guadino.